Schizofrenia nel 2024 alla luce delle nuove conoscenze

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 16 dicembre 2023.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La schizofrenia (295.90 DSM-5) o psicosi schizofrenica costituisce una delle più importanti categorie diagnostiche della clinica psichiatrica ma, come la nostra società neuroscientifica insegna da vent’anni, non individua un’entità omogenea originata da un unico processo eziopatogenetico. Si può infatti considerare il disturbo psicotico schizofrenico come una sindrome clinica ereditabile, complessa, multi-dimensionale con proporzioni e gradi variabili di manifestazioni quali deliri, allucinazioni, negativismo, alterazioni noetiche/comunicative, dell’umore e del comportamento motorio. Questa eterogeneità, che spiega il fallimento dei tentativi di riportare tutta la casistica a una sola origine causale, è stata proposta anche di recente, nel mese di aprile 2023, dopo l’aggiornamento del 18 marzo[1] e la recensione di due settimane prima di uno studio sul difetto di recettori H2 nella patogenesi del disturbo[2], quando si osservava: “Ribadendo la tesi più volte enunciata che alla categoria nosografica unica potrebbero corrispondere più meccanismi o processi molecolari eziopatogenetici, cominciamo subito con un aggiornamento relativo alla percentuale di determinazione genetica: nuove stime fanno salire, come era stato ragionevolmente supposto, all’80% il ruolo dei geni nello sviluppo del quadro clinico[3][4].

Alla complessità di un’entità nosografica causata da differenti variazioni geniche e processi eziopatogenetici, si aggiunge la difficoltà di dominare la materia dei dati sperimentali costantemente prodotti dagli innumerevoli gruppi di ricerca che in tutto il mondo indagano la patologia cerebrale associata alla psicosi. Per fare il punto delle conoscenze attuali e fornirne una sintesi agli psichiatri perché affrontino nel 2024 la schizofrenia grazie agli strumenti potenzialmente forniti dalle neuroscienze, diciassette ricercatori hanno concepito e realizzato, con l’intervento di 50 esperti internazionali del campo, un processo multi-fase, in cui ogni nuovo passo è stato sviluppato sul consolidamento del precedente. Il lavoro è stato pubblicato come rassegna e aggiornamento da Rajiv Tandon e i sedici colleghi che vi hanno preso parte.

(Tandon R. et al., The schizophrenia syndrome, circa 2024: What we know and how that informs its nature. Schizophrenia Research – Epub ahead of print doi: 10.1016/j.schres.2023.11.015, 2023).

La provenienza degli autori è prevalentemente la seguente: Department of Psychiatry, WMU Homer Stryker School of Medicine, Kalamazoo, MI (USA); Department of Psychiatry, University of Cincinnati College of Medicine Cincinnati, OH (USA); WMU Homer Stryker School of Medicine, Kalamazoo, MI (USA); Department of Psychiatry, Ichan School of Medicine at Mt. Sinai, New York, NY (USA); Department of Psychiatry, University of Maryland School of Medicine, Baltimore, MD (USA); Department of Psychiatry, Harvard Medical School, Cambridge, MA (USA); Department of Psychiatry and Psychotherapy, Heinrich-Heine University, Dusseldorf (Germania); Department of Psychiatry and Biobehavioral Sciences, Institute of Neuroscience and Human Behavior, UCLA, Los Angeles, CA (USA); Department of Psychiatry, University of Pennsylvania Perelman School of Medicine, Philadelphia, PA (USA); Department of Psychiatry, Vanderbilt University Medical Center, Nashville, TN (USA).

Per introdurre il lettore non specialista al disturbo schizofrenico, come si è fatto altre volte, si propongono qui di seguito brani tratti da nostri articoli recenti.

A proposito della patogenesi: “La patogenesi della schizofrenia rimane ancora indefinita, nonostante si siano acquisite nel campo della fisiopatologia nozioni estese dall’ambito neurochimico a quello strutturale, dal livello sinaptico a quello delle grandi reti neuroniche dell’encefalo. La stessa genetica che, dal tempo delle analisi di associazione del Psychiatric GWAS Consortium Coordinating Committee (2009) si è arricchita di una quantità enorme di dati sui geni di rischio, non ha fornito le indicazioni dalle quali si sperava di ricavare la ratio di processi paradigmatici per l’eziopatogenesi di alterazioni probabilmente eterogenee in termini molecolari, cellulari e di sistemi neuronici, ma accomunate clinicamente da alcuni capisaldi sintomatologici.”[5]

Per la difficoltà nel determinare probabili eventi molecolari iniziali, quali diretta conseguenza dell’eziologia, oggi si tende a definire prudentemente “fisiopatologici” anche i processi ricostruiti come probabili meccanismi patogenetici a partire da nuovi esiti sperimentali.   Per inquadrare le nuove nozioni nell’evoluzione della concezione della schizofrenia:

“La schizofrenia, che interessa l’1% della popolazione mondiale, costituendo una delle maggiori cause di disabilità mentale, è la più grave delle alterazioni psichiche che accompagnano l’intera vita di un paziente psichiatrico, dall’esordio in età giovanile o all’inizio dell’età adulta fino alla morte, di dieci anni più precoce della media nella popolazione generale. La concettualizzazione di questo disturbo come malattia delle mente si deve al grande nosografista tedesco Emil Kraepelin che, prendendo le mosse dal caso di uno studente brillante diventato inabile per i compiti cognitivi più semplici dopo la comparsa dei sintomi, identificò un piccolo gruppo di pazienti con un simile decorso caratterizzato dalla perdita dell’intelligenza e, per questo elemento che gli parve caratterizzante, propose la definizione diagnostica di demenza praecox.

Era dunque ben presente l’aspetto relativo al limite cognitivo, poi per decenni trascurato, soprattutto per l’influenza delle teorie psicodinamiche sulla genesi del disturbo, che attribuivano a conflitti inconsci lo sviluppo di un funzionamento mentale aberrante e non all’alterazione del fondamento neurobiologico cerebrale, necessario anche per i più elementari processi di estrazione di significato dai messaggi verbali, oltre che per induzione, deduzione, riconoscimento di nessi di causalità e vincoli condizionali.

Lo stesso Eugen Bleuler[6], che introdusse il termine “schizofrenia” per indicare la frequente scissione (schizo-) nello psichismo e, in particolare, la separazione del tono affettivo ed emotivo dalla cognizione espressa nella comunicazione, aveva ben presente il difetto intellettivo che peggiorava col progredire della malattia.

A quell’epoca, l’opinione degli psichiatri era concorde nel ritenere questo quadro psicopatologico la conseguenza di una malattia del cervello con una forte base genetica, e caratterizzata da un processo patologico che si supponeva diffuso nel parenchima cerebrale, con particolare compromissione della corteccia, ritenuta la base dei processi intellettivi. L’unica possibilità esistente a quel tempo di studio del cervello consisteva nell’osservazione necroscopica e nel prelievo autoptico di campioni di tessuto cerebrale, per lo studio istologico.

Gli stessi padri fondatori della neuropatologia, Nissl, Alzheimer e Spielmeyer, condussero ricerche istologiche post-mortem sul cervello di pazienti schizofrenici, descrivendo apparenti alterazioni che si rivelarono incostanti e non caratterizzanti[7]. In particolare, nel 1897 Alzheimer segnalò una scomparsa locale di cellule gangliari negli strati esterni della corteccia cerebrale; Klippel e Lhermitte (1906) descrissero zone di demielinizzazione focale, il cui reale valore di reperto istopatologico fu contestato, molto tempo dopo, da Adolf Meyer e poi da Wolf e Cowen. Anche Buscaino in Italia (1921), capostipite di una famiglia di neurologi illustri, compì studi neuropatologici sulla struttura del cervello schizofrenico, descrivendo formazioni a grappolo, che si rivelarono poi artefatti di preparazione del tessuto. Josephy (1930) descrisse una sclerosi cellulare e una degenerazione grassa degli strati corticali, che non trovarono riscontro in altri studi. Bruetsch, nel 1940, credette addirittura di aver rinvenuto dei focolai reumatici nell’encefalo psicotico; sicuro della bontà e significatività del reperto, postulò un ruolo eziologico per la febbre reumatica.

Nel 1952 Winkelman riscontrò nel cervello schizofrenico una perdita diffusa di neuroni, ma furono sollevati dubbi circa la significatività del reperto che si ritenne potesse essere stato generato dalle procedure istologiche impiegate. Allora, nel 1954, Cécilie e Oskar Vogt[8], per superare questo problema, allestirono uno studio che prevedeva un’accurata indagine seriale degli emisferi cerebrali mediante sezioni sottili dello spessore di 8 μ in uno studio controllato, in cui i reperti istologici dei cervelli dei pazienti erano comparati con identiche sezioni del cervello di persone non affette da psicopatologia e decedute per cause non cerebrali alla stessa età. I Vogt trovarono in tutti i cervelli schizofrenici alterazioni assenti nei cervelli sani, anche se la localizzazione, l’aspetto istologico e la densità variavano da un caso all’altro. I tre reperti principali dei Vogt furono cellule colliquanti (Schwundzellen), degenerazione vacuolare e liposclerosi.

Negli ultimi decenni, dopo oltre cinquanta anni durante i quali la concezione neuropatologica della schizofrenia è stata abbandonata in luogo di teorie eziologiche psicoanalitiche, relazionali e comportamentali, si è tornati su più solide basi – fornite dalle metodiche di neuroimmagine, dalla nuova genetica e dalle scoperte di neurobiologia molecolare e neurochimica – a concepire le psicosi schizofreniche come conseguenza di alterazioni del cervello[9]. Dalle differenze nel metabolismo cerebrale, nell’espressione dei recettori, nelle dinamiche sinaptiche, negli equilibri fra sistemi neuronici, nelle funzioni degli astrociti, fino a quelle emerse dallo studio delle connessioni secondo i metodi del campo specializzato della connettomica, si dispone di un’imponente raccolta di dati che individua le basi cerebrali di una fisiopatologia, che non potrebbe essere spiegata nei termini obsoleti della ‘reazione maggiore’, contrapposta alla ‘reazione minore’ costituita dai disturbi d’ansia”[10].

In passato abbiamo affrontato il problema allora emergente dell’alterazione della funzione talamica nella schizofrenia[11]/[12].

A proposito dell’aver a lungo trascurato in psichiatria i sintomi cognitivi, in parte coincidenti con alcuni sintomi negativi della schizofrenia, due anni fa si osservava:

“La cultura che voleva caratterizzare anche la distinzione fra la neurologia, come la branca medica che si occupa di ictus, epilessie, tumori, traumi cerebrali, e così via, e la psichiatria, che si occupa di ansia, fobie, attacchi di panico, depressione e disturbi con deliri e allucinazioni, sollecitava l’attenzione sui sintomi “propriamente psichiatrici” della schizofrenia, perché non si cadesse nell’errore di considerarla una “demenza precoce” come era accaduto nell’Ottocento. Probabilmente, questa enfasi eccessiva ha portato a trascurare per molto tempo la considerazione e lo studio sistematico dell’indebolimento cognitivo”[13].

In realtà, nella clinica psichiatrica del disturbo schizofrenico si distinguono sintomi positivi, quali deliri e allucinazioni, sintomi negativi, come l’anaffettività e il negativismo, e sintomi cognitivi, quali disorganizzazione del pensiero, linguaggio soggettivo o inappropriato, deficit di attenzione e memoria, senza contare le frequenti stereotipie di moto e i manierismi di alcuni pazienti.

Per introdurre alle interpretazioni neuroevolutive dei sintomi della schizofrenia correntemente adottate dagli psichiatri, mi rifaccio a un articolo di Rossi del 20 marzo 2021[14]:

“Due anni fa ho ricordato un modello neuroevolutivo della schizofrenia[15] attualmente oggetto di insegnamento in molte facoltà mediche di tutto il mondo e proposto per la prima volta da Keshavan nel 1999: durante l’embriogenesi noxae evolutive portano alla displasia delle strutture costituenti alcune specifiche reti neuroniche, causando in tal modo i segni premorbosi cognitivi e psicosociali; durante l’adolescenza, un’eccessiva eliminazione di sinapsi determina un’iperattività dopaminergica fasica e precipita la psicosi. Keshavan nota che, dopo la manifestazione clinica della malattia, le alterazioni neurochimiche possono condurre a processi neurodegenerativi.

Il motivo del successo di questo modello è dato dal ‘sostegno’ ricevuto da numerose evidenze sperimentali. In realtà, si tratta di una ricostruzione ragionevole e coerente con i dati dai quali è stata desunta, e nulla esclude che sia corretta; tuttavia rimane troppo generica rispetto all’esigenza di capire perché e come le ‘noxae’ causino una displasia responsabile di quei sintomi precoci e perché si determini una perdita di sinapsi che causa iperfunzione dopaminergica[16][17].

 

Dopo questa introduzione e sinteticissima rassegna di alcuni studi e tesi fra le più accreditate, possiamo tornare alla presentazione del progetto di aggiornamento realizzato con la collaborazione di 50 esperti internazionali da Rajiv Tandon e colleghi.

La rassegna assembla i risultati sperimentali verificati e consolidati, ordinandoli per argomento: concezione, eziologia, fisiopatologia, espressione clinica, trattamento; poi propone riflessioni argomentate su ciò che le nuove acquisizioni rivelano sulla natura della schizofrenia. I nuovi studi sottolineano caratteri quali l’ereditabilità, la complessità, la multidimensionalità di una realtà che in clinica si presenta come una sindrome che varia nel grado, ossia in intensità, durata e gravità, dei sintomi psicotici (con particolare riferimento a deliri, allucinazioni, disorganizzazione del pensiero, alterazioni della logica comunicativa, con risposte a lato, paradossali e incoerenti), sintomi negativi (negativismo, ecc.), sintomi cognitivi (deficit di working memory, di attenzione, di inferenza logica, ecc.) tono umorale e affettivo (anaffettività, tono affettivo incongruo, perdita di stenia fino alla catatonia, ecc.) manifestazioni motorie (stereotipie di moto, manierismi, affettazione, ecc.).

La schizofrenia è clinicamente considerata come una malattia psichiatrica cronica con un decorso caratterizzato da remissioni e recidive, corrispondenti alla descrizione classica di periodica ricorrenza di fasi acute e bouffée deliranti. L’andamento recidivante-remittente presenta gradi di recupero che variano da paziente a paziente, ma in senso proprio non si dovrebbe parlare di remissione, in quanto non si tratta del cessare di un processo neuropatologico classico (ad es.: remissione della sclerosi multipla) ma della temporanea scomparsa dei sintomi psicotici di fase acuta, senza recupero per i sintomi cognitivi e negativi, e con un’alta percentuale di pazienti che manifesta inabilità lavorativa e sociale. Naturalmente, si fa il punto sulla realtà clinica attuale di una psicosi trattata cronicamente con psicofarmaci di ultima generazione in approcci terapeutici che combinano più strategie (psicologica, sociale, ecc.).

I fattori di rischio genetico[18] includono probabilmente migliaia di varianti genetiche comuni, ciascuna delle quali ha un piccolo impatto sul rischio individuale, e una pletora di varianti genetiche rare (mutazioni) che hanno un alto impatto sul rischio individuale. I loro effetti biologici sono espressi in modo elettivo nel cervello e molte delle stesse varianti accrescono anche il rischio di altri disturbi psichiatrici, quali disturbi pervasivi dello sviluppo neurale, autismo e disturbo bipolare.

I fattori di rischio ambientale includono, ma non sono a questi limitati, la residenza urbana nell’infanzia, l’emigrazione, l’età paterna avanzata all’epoca della nascita, l’uso e l’abuso di cannabis, il trauma infantile, l’infezione materna prenatale e la sofferenza cerebrale ipossica perinatale.

Le principali alterazioni cerebrali strutturali, funzionali e neurochimiche interessano numerose regioni cerebrali, varie reti e circuiti neuronici.

Tra i principi terapeutici rilevanti c’è l’impiego di antagonisti e agonisti parziali dei recettori della dopamina D-2, perché oltre a ridurre deliri e allucinazioni migliorando anche la sensazione soggettiva del paziente, riducono la frequenza di recidive di fase acuta.

Rajiv Tandon e colleghi sottolineano che solo alcuni particolari tipo di intervento psicologico e psicosociale portano effettivo giovamento ai pazienti. In ogni caso, è auspicabile una diagnosi precoce, con una tempestiva istituzione di un trattamento studiato sul profilo specifico del paziente: l’esito delle terapie è migliore se praticate per tempo.

Gli autori dello studio tengono a precisare che, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni in passato, non vi sono elementi necessari e sufficienti nell’eziologia, nella patologia, in un set di caratteristiche cliniche e nemmeno nel trattamento per poter circoscrivere la sindrome schizofrenica separandola da altri disturbi di qualità psicotica.

I risultati sperimentali escludono la possibilità – come da noi sempre sottolineato – che esista una singola via fisiopatologica comune a tutti i casi di schizofrenia. Tandon e colleghi sottolineano anche che i confini del disturbo schizofrenico sono indistinti e nebulosi sia in termini patologici che clinici, fatto che suggerisce la critica allo statuto categoriale ancora sostenuto da molti, e la necessità di una nuova concettualizzazione più ampia della schizofrenia, di tipo multi-dimensionale e/o in termini di spettro di disturbi.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-16 dicembre 2023

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Note e Notizie 18-03-23 La schizofrenia in nuovi studi.

[2] Note e Notizie 04-03-23 Il deficit di recettori H2 nella patogenesi della schizofrenia.

[3] Dal DSM-5 a recenti rassegne è riportato il dato del 60%.

[4] Note e Notizie 01-04-23 Geni SMAD nella schizofrenia. La genetica della schizofrenia è esaustivamente trattata in un saggio del nostro presidente: Note e Notizie 23-09-23 Appunti di genetica della schizofrenia; altri aspetti sono trattati in Note e Notizie 21-10-23 Genomica della schizofrenia e sue implicazioni.

[5] Note e Notizie 04-03-23 Il deficit di recettori H2 nella patogenesi della schizofrenia.

[6] Sulla storia delle origini della diagnosi di schizofrenia e sull’evoluzione del concetto in psicopatologia vi sono numerosi riferimenti negli scritti pubblicati nelle “Note e Notizie”; nella sezione “In Corso” sotto il titolo “La concezione dei disturbi mentali nella storia” si può leggere una cronologia che, in brevissime sintesi concettuali, elenca l’evoluzione che si è avuta nel concetto di malattia mentale dalle prime tracce scritte, risalenti al 3400 a.C., fino ai giorni nostri.

[7] Le nozioni storiche riportate di seguito sono tratte da una relazione del nostro presidente; per le indicazioni bibliografiche complete si veda in Silvano Arieti, Interpretazione della Schizofrenia, in 2 voll., Feltrinelli, Milano 1978.

[8] Ai coniugi Vogt è intitolato un istituto di ricerca nel quale è esposta un’interessante collezione di cervelli. Oskar Vogt divenne celebre per lo studio del cervello di Lenin, nel quale rilevò cellule piramidali giganti della corteccia di dimensioni notevolmente superiori alla media.

[9] Sicuramente una parte non trascurabile in questa evoluzione l’hanno avuta i numerosi istituti di ricerca che hanno dedicato le proprie attività alla ricerca di correlati neurobiologici dei disturbi mentali e le riviste, come Molecular Psychiatry, che hanno consentito la diffusione della conoscenza di risultati che hanno modificato dei punti di vista che resistevano da decenni.

[10] Note e Notizie 16-11-19 Trattamento cognitivo della schizofrenia. Si veda anche: Note e Notizie 07-12-19 Differenze in S100b tra persone affette da schizofrenia.

[11] Note e Notizie 17-03-21 Alterata funzione del talamo nella schizofrenia.

[12] Note e Notizie 03-07-21 Talamo anteriore nei difetti cognitivi di autismo e schizofrenia.

[13] Note e Notizie 27-02-21 Il deficit cognitivo della schizofrenia è legato alla disbindina. Si veda anche lo studio maggiore sui rapporti fra geni associati alla schizofrenia e volume delle aree cerebrali sottocorticali: Note e Notizie 20-02-16 Influenze genetiche su schizofrenia e volume sottocorticale. Per i rapporti con la morfologia si veda anche: Note e Notizie 21-11-15 Nella schizofrenia la normale asimmetria emisferica è ridotta e alterata e Note e Notizie 14-02-15 Segni di schizofrenia che precedono i sintomi per una diagnosi precoce.

[14] Note e Notizie 20-03-21 Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo. Per questa patogenesi si legga il testo integrale dell’articolo.

[15] Note e Notizie 16-02-19 Nella schizofrenia la microglia riduce le sinapsi.

[16] È evidente la costruzione deduttiva da dati e inferenze precedenti. Quando è stato proposto il modello, il campo di studi della fisiopatologia della schizofrenia era ancora dominato dall’ipotesi dell’iperfunzione dopaminergica, desunta dall’azione anti-dopaminergica di fenotiazinici, butirrofenonici e altri neurolettici di prima generazione efficaci nel ridurre deliri e allucinazioni degli schizofrenici. Negli ultimi venti anni si è consolidata l’evidenza della partecipazione di tutti i sistemi trasmettitoriali alla fisiopatologia, con una prevalenza di interesse anche farmacologico per i sistemi neuronici a segnalazione glutammatergica.

[17] Note e Notizie 20-03-21 Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo.

[18] V. Note e Notizie 23-09-23 Appunti di genetica della schizofrenia; Note e Notizie 21-10-23 Genomica della schizofrenia e sue implicazioni.